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martedì 25 ottobre 2022

Carlo il Bonsai legge cose (e intervista persone): "Il gioco e la candela" di Michele Giordani

 


“Il gioco e la candela”, opera prima di Michele Giordani, scrittore e professore perugino classe 1976, è un viaggio fantastico nelle speranze e nei sogni di un giovane ricercatore, ma - per parallelismo – lo è anche per chi ha avuto nella vita un obiettivo su cui ha riversato tutto ciò che aveva dentro.
Fin troppo facile rivedere nel protagonista Tommaso lo stesso autore, ma non c’è traccia di nostalgia nelle pagine, solo una feroce ironia, unica cura allo sconforto.
Il finale, da teatro pirandelliano, è solo l’ultimo dei continui ribaltamenti di visuale che si alternano per tutto il racconto. Che poi non è quello che accade, a ognuno di noi - ogni santo giorno - nella vita?
Ma lasciamo che sia l’autore a raccontarci qualche cosa del libro e, gioco forza, di lui.

D. Prima domanda, che poi sono due, scontata quanto vuoi ma per cominciare facciamo conoscere il
romanzo: di cosa parla? Chi è Tommaso?

R. Dunque, Tommaso è un giovane ricercatore che si trova coinvolto in un mistero misterioso, alla Dan Brown, tanto per capirsi. Solo che al contrario dei personaggi di Dan Brown non è particolarmente sveglio, e spesso prende le decisioni sbagliate… Che è un cosa che nei libri di avventura, o mystery, mi ha sempre fatto riflettere: com’è che l’eroe azzecca la mossa giusta ogni volta? Perché nella vita vera prendiamo un sacco cantonate, di decisioni sbagliate, che poi ci tocca rinterzare e sperare di non fare peggio. Ecco, Tommaso è una versione para-autobiografica di me che sbaglia clamorosamente strada (anche se il mio percorso è stato assai meno bizzarro del suo, e di certo non sono stato un campione di nuoto di fondo).

D. Fin dall’inizio, anzi soprattutto nella parte iniziale, in cui le vicende si svolgono in Italia, si respirano
veramente gli odori, le sensazioni dell’università italiana. Anche visivamente il lettore è catapultato dentro quel mondo. Un dejà vu molto forte.

R. Beh, come detto prima, il romanzo è una (non tanto) lunga elaborazione di una mia sconfitta personale, frutto di una parte importante della mia vita passata in quegli ambienti (e in ambienti analoghi in altre città, in Italia e nel Regno Unito): scrivere quelle pagine è stato un po’ che descrivere la propria cameretta di quando si era ragazzi.

D. Uno dei personaggi centrali del romanzo è Jody. La ragazza è l’archetipo di un determinato tipo di
donna, ma forse non solo. È un ideale, non solo estetico, che si è fatto carne.

R. Allora, dato che sono uno scrittore mediocre, tutti i miei personaggi agiscono secondo le mie necessità drammaturgiche e sono basati su persone reali. Curiosamente, Jody è l’unico che si porta pure dietro il nome della ragazza che lo ha ispirato, anche se, come dici tu, alla fine è più un ideale che una vera ragazza, dato che con la vera Jody avrò scambiato forse 40 parole (più di 25 anni fa, in Erasmus)…

D. Perché la scelta di un’ironia tanto amara per raccontare certi temi?

R. Certe storture (che non sono necessariamente nostrane, ma semplicemente umane) meritano di essere
derise. Ma ovviamente non son tanto stupido da pensare di essere in una posizione di superiorità morale, diversa da quella di chiunque altro. L’ironia diventa amara perché non può e non deve perdonare noi stessi.

D. Raccontare significa anche esorcizzare quello che ci fa stare male, non dico curare. Fa ancora male non aver potuto portare avanti un determinato percorso? Ma quanto è servito mettere in fila pensieri ed
emozioni, fissandole sulla carta?

R. Ottima domanda. Scrivere di sicuro serve a mettere a fuoco , noi stessi e il mondo – o almeno il pezzo di mondo – che proviamo a raccontare. E anche se non si esce “curati” o risolti, almeno pacificati, sì. E forse la cosa più bella è che pure la sofferenza e la delusione possano portare frutto, in questo caso nella forma di un mucchio di pagine scritte e rilegate.

D. Il finale, nelle intenzioni di quando lo hai scritto, era un happy ending? E se lo rileggi ora, è un finale
felice?

R. Dunque, nella prima stesura – più sintetica – l’happy ending era più che altro un gancio per un ipotetico seguito ancora più bizzarro, quindi reale ma “fantastico”. Poi, quando ho aggiunto il penultimo capitolo, il finale ha preso una sfumatura un po’ più onirica, che credo abbia un suo senso nella storia: è un happy ending (almeno per qualche personaggio), ma è felice soprattutto perché è “giusto” per la storia.


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