Sono ancora qui a
scrivere stupirmi con il quaderno ormai a metà, mentre penso come questa malinconia
folle e benedetta, sia la compagna più fedele mai avuta. Non c’è mestizia nel
saperla altrove, solo una grande spazio bianco da riempire con e parole, con le
quali disegnarla da zero, cambiando magari il corso alla storia, agli errori,
ai sentimenti. Parole con le quali avvicinarla, facendole sentire quanto siamo
simili, dicono che cuori infranti non conoscono legge.
Credevo di avere tutto,
di essere inattaccabile, al di sopra dei colpi della vita, ma ho sbattuto
contro la realtà e non ci sono fasciature per quel tipo di ferite. Ho urlato,
pianto, bruciato il cielo, maledetto gli angeli e l’amore.
Improvvisamente non
sapevo dove mi trovassi. La sensazione era strana, avrei dovuto essere
terrorizzato e in parte lo ero, ma allo stesso temo c’era una sorta di
rassegnazione nell’abbandonarsi a questa situazione che la rendeva
sopportabile. Potevo essere nel mio portico, seduto a quel tavolo di resina e
olivo che tanti complimenti ha riscosso, così come seduto lungo il fiume della
vita di Siddharta o dentro al Pency Prep College di Holden Caulield, non
sarebbe cambiato nulla. Come ben poca differenza ci sarebbe stata se fossi
stato tra il trovarsi a Orano tra i topi appestati o nel kolchoz Terminus
Radioso, prigioniero di uno sciamano folle. Una prigione è sempre una prigione,
anche se cambi le parole. E poi c’era lui, il mio guardiano, quello che non mi
perdeva mai di vista, quello di cui sentivo il calore dello sguardo sulla nuca
anche quando credevo fosse distratto. Ma chi era? Il Grande Puffo, Billy the Kid,
Don Chisciotte, una caricatura mal riuscita del mio ego, della mia coscienza,
della mia saggezza. Era la parte più vera di me che mi parlava.
Non sapevo dove fossi, né
esattamente con chi, una foglia ubriaca in balia dei cavalli in corsa degli
Stones, sommerso da un mare psichedelico dei rimi Pink Floyd, perso
nell’universo infinito galleggiando col Duca Bianco, costretto in quella
inquietante necessità di essere felice ad ogni costo da mostrare con un
sorriso, come cantava il Blasco.
Nel momento più buio di
tutti la voce del mio guardiano iniziò a parlarmi, clama, decisa, profonda,
impossibile da non ascoltare. Mi inchiodava alla verità, a quello che ormai non
sentivo più, il calore di un amore regolare o la fiamma clandestina che
illumina la notte. Erano tutti muri buoni per nascondermi, ma ad un certo punto
basta così. Perché c’è differenza tra ciò che si vuole realmente e quello a cui
si decide di credere, per via di quel tormento interiore che ti mangia un
giorno dopo l’altro. Ero in prigione da innocente, sì da innocente, perché non
c’è peccato nel cercare la propria personale gioia. E mi ci ero messo da solo.
Ho strisciato sui gomiti, sulle ginocchia, sanguinando da ogni poro della
pelle, azzerando tutte le mie certezze, ma alzando la testa con la certezza che
non l’avrei più abbassata. Dissi addio alla necessità di dover dare un nome
alle cose, di pensare a ciò che sarà perché così si fa, caricarsi di
aspettative è un altro modo di definire una galera. Sono passato attraverso
selve di rovi che hanno dilaniato prima le carni e poi la mia anima, ma sono
arrivato a capire ciò di cui avevo bisogno. Amerò e basta, dicendo sempre la
verità, farà male lo stesso, ma la mia anima sarà libera come quando avevo tre
anni.
E così mi ritrovo qui,
felice come un bambino, con il quaderno ormai a metà, per imbrattarlo ancora
con i miei pensieri che toccheranno nel profondo e renderanno liete le persone
a cui tengo.
Una poesia per un
sorriso, mi pare uno scambio equo, mi pare un bel modo di vivere.
Racconto inedito breve di Francesco Calzoni
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