D Partiamo dalla
domanda più scontata: come mai, tu che hai sempre scritto tutt’altro genere,
hai deciso di cimentarti in una forma di narrativa che nasconde non poche
insidie? Qual è stata la notizia, avvenimento, idea, sogno (o quello che vuoi)
che ha fatto nascere l’embrione del romanzo?
R È stata una sfida.
Dopo i miei due primi lavori, guidati da sentimenti positivi e luminosi, un mio
caro amico ha osato lanciare la sfida. Sono bastate poche parole: “Ma tu
sapresti scrivere di un cattivo? Non ci sono mai dei personaggi veramente
negativi nelle tue storie, ce la faresti?”. Amo le sfide, non lo nego. Ecco
perché ho acceso subito il pc e ho iniziato a buttare già le prime righe di
quello che credevo sarebbe stato un racconto breve e invece poi è diventato il
mio primo thriller. Non credevo di riuscirci e a volte ancora dubito di
avercela fatta, ho scoperto di avere dei serbatoi segreti da cui attingere e
dei quali ignoravo l’esistenza.
D Io sono un
grandissimo appassionato di psicologia, credo che la caratterizzazione
psicologica dei personaggi abbia un peso specifico enorme nella riuscita di un
romanzo. Nel tuo lavoro, come ho scritto nella recensione, alla fine sembrano
quasi non esserci buoni o cattivi (intesi nel senso cinematografico degli anni
80, dove il buono era immacolato e il cattivo senza speranza di redenzione).
Parlaci del lavoro che hai fatto per creare queste anime “dannate”
R Vorrei dire, e
questo farebbe di me una scrittrice degna di questo nome e anche di buon
livello, che ho fatto delle ricerche approfondite in campo psicologico e che mi
sono documentata con accuratezza e precisione ma, purtroppo, non è così. Mi
sono lasciata guidare dall’istinto, dalle mie personalissime idee, da quello
che avrei voluto leggere, da una specie di immedesimazione che ha portato a un
risultato che non mi dispiace affatto.
D Si dice che lo
scrittore racconti sempre sé stesso, dov’è Maria Laura in questa storia?
R Questa è davvero
una bella domanda. Saprei dire dove sono negli altri due romanzi, con certezza,
ma non riesco a trovare una posizione esatta che possa essere il mio “posto” in
Mai stato figlio. Forse perché l’idea di identificarmi con uno qualsiasi dei protagonisti
mi spaventa, non poco. Credo di aver amplificato a livello cinematografico le
piccole paure che ognuno di noi vive ogni giorno, quindi anche le mie, forse ho
solo usato una specie di lente di ingrandimento che allarga le immagini fino a
distorcerle. Ecco, Maria Laura in questo thriller è la persona che tiene in
mano la lente che a volte ingrandisce un po’ anche sé stessa.
D Il thriller non è
il tuo genere, ma non hai mai letto nulla di questo filone? Ci sono degli
autori che ti hanno appassionato e magari spinto a volerli ”emulare”
cimentandoti in questa sfida?
R Buffo da dire, i
thriller mi fanno paura. Sono certa di non averne mai letto uno. Ho visto
qualche film, dei quali non ricordo neppure il titolo, premurandomi di coprirmi
gli occhi nelle scene più inquietanti. Non sto facendo delle belle figure
durante questa intervista, ma, ahimè, è la verità.
D Hai mai pensato a
un finale diverso da quello del libro?
R Il finale non era
pronto quando ho iniziato a scrivere, proprio perché ero convinta di dare vita
a un racconto breve, lavoro totalmente diverso che si è formato strada facendo.
Pian piano ho riordinato le idee, qualche volta ho ipotizzato conclusioni
differenti ma quando ho capito qual era il punto in cui tutto sarebbe
giustamente potuto convergere, si è illuminata la lampadina e non ho più
cambiato idea.
D Come mai la scelta
di pubblicare questo libro con uno pseudonimo?
R “Mai stato figlio”
è molto lontano da “Il peccato più grande” e “Il vero colore dei camaleonti”. È
diverso il genere, diverso il modo di scrivere, diverso l’intento, sono diversa
anche io. Non volevo trarre in inganno i lettori, non volevo che chi ha
apprezzato i miei precedenti lavori rimanesse sorpreso da questo passaggio così
brusco, quindi ho creato uno pseudonimo per segnare un limite, per non
confondere.