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domenica 30 ottobre 2022

Carlo ha una sfumatura noir e racconta "Le quattro casalinghe di Tokyo" di Natsuo Kirino.



Palazzoni identificati da numeri o lettere, catrame, macchine e clacson, rumore di treni che sfrecciano sui binari di fronte a sbarre chiuse, piccoli sprazzi di verde inframmezzano vite che si svolgono chiuse tra le pareti di piccoli monolocali ricoperti da tatami nei quali la luce filtra, spesso, dalla sola finestra, unica apertura sui muri di cemento armato duri e resistenti, fatti apposta per un paese che, invece, ama dondolare, e lo fa spesso, anche con conseguenze terribili. Queste vite sono molteplici, fluttuanti, all'apparenza anonime, vite di uomini e donne che, nell'immaginario occidentale, appaiono sempre immersi nella frenesia del correre, del lavorare, senza mai riposare senza, quasi, avere sentimenti, formichine produttive di un paese sempre proteso verso il futuro. Le donne giapponesi, fino agli anni novanta, sono state escluse dai ruoli predominanti della società e si vanno avviando da qualche decennio verso una lenta, ma costante, emancipazione, che le sta portando fuori da quel mondo oscuro e chiuso delle casalinghe che, nella vita, avevano poco più che la prospettiva di sposarsi, prendere il nome del marito e fare un figlio per finire a occuparsi di entrambi e  della casa. Sono proprio loro, le casalinghe di Tokyo, le protagoniste di questo noir scritto da Natsuo Kirino (pseudonimo di Mariko Hashioka), regina indiscussa del giallo giapponese, pioniera del genere e autrice di altre opere assolutamente degne di nota (solo per citarle "Grotesque", "Morbide guance", "In").

Yaoyoi, placida e remissiva casalinga, benvoluta nel vicinato, occupa il proprio posticino nel meccanismo collaudato del mondo finché un giorno qualunque, sfinita dall'opprimente e violento Kenji, marito che ha dilapidato tutti i suoi risparmi al gioco e con le donne, compie un gesto irreversibile e lo uccide sulla soglia di casa, strangolandolo con la cintura dei pantaloni, e provando subito dopo una sensazione del tutto nuova. Si sente viva, sente di essere finalmente libera, sciolta dal giogo di un uomo che "non meritava certo di vivere". Yaoyoi ride, compiaciuta dal proprio gesto, nell'insana follia che, da quel giorno, si impossesserà di lei, finendo per coinvolgere le sue amiche fidate, Masako e Yoshie, che la aiuteranno a disfarsi del cadavere di Kenji, facendolo a pezzi e gettandolo in vari bidoni della spazzatura dislocati in più punti della città al fine di non destare sospetti. Nella fabbrica oscura e puzzolente in cui le donne lavorano, si trova anche Kuniko, quarta delle casalinghe, anch'essa vittima di un marito abusante e perseguitata da un usuraio. La storia è una lenta trasformazione, che sfocia nell'autodistruzione di quattro donne che si trovano a vivere ai margini del mondo, oppresse da una società maschilista e indifferente, che si trovano a manifestare attraverso la brutalità la propria sete di rivalsa. "Le quattro casalinghe di Tokyo" è un thriller coinvolgente e inquietante, che non lascia indifferenti, ma che porta a chiedersi fino a che punto ci si può spingere quando si tenta di urlare disperatamente una richiesta di aiuto. E' lo specchio non solo del lato oscuro della società giapponese, ma anche di quella di tutto il mondo in cui, purtroppo, ancora molte, troppe donne, gridano in silenzio senza essere ascoltate.

"Com'è facile cadere per un essere umano, non trovi" mormorò, e Masako le rivolse uno sguardo pieno di compassione. "Sì. poi è come scendere precipitosamente per una china con una bicicletta senza freni." "Vuoi dire che niente e nessuno riesce più a fermarti?" "Sì. A meno che non si vada a sbattere contro qualcosa".

Carlo il bonsai legge cose: "Monsieur Malausséne" di Daniel Pennac.

 



Carlo legge cose, ma soprattutto Carlo cerca una via di fuga. Come l’acqua bloccata da una diga. Che poi è quello che fa il povero Benjamin Malausséne in ogni storia, evitando gli accanimenti di un destino decisamente burlone. Ed è quello che fa la sua variopinta famiglia, un meraviglioso carnevale di anime, un branco di spiriti che si lasciano andare, eludendo dogmi e paletti, reinventando le regole del vivere sociale quando quest’ultime non si adattano al loro sentire. Questa è la storia, Signore e Signori, di quando lo scrittore Daniel Pennac, in quel preciso momento, venne toccato dal Genio, dalla stessa carezza divina che sfiorò Calvino, a cui dire ”scrittore” è fargli un’offesa seppur postuma, perché anche Genio, con la G maiuscola, è comunque riduttivo, quando uno è capace di scrivere capolavori assoluti come Marcovaldo o “Il ciclo degli antenati” (per restare in ambito favolistico). Poiché non si può creare, col semplice genio (notare adesso la “g” minuscola) umano un caleidoscopio tanto colorato, un circo Barnum senza mostri (a parte quelli che si definiscono “normali”), con il solo semplice intelletto. Non è immediato, non è per tutti, entrare nel mondo di Belleville, ma proprio per questo ne vale la pena. Il protagonista della tetralogia (“Il paradiso degli orchi”, “Fata carabina”, “La prosivendola” e “Signor Malausséne”) è appunto Benjamin Malausséne, di mestiere “capro espiatorio” e già questo basta per darvi la dimensione del mondo nel quale state per immergervi. Benjamin ispira compassione a chiunque, e riesce a monetizzare questo talento, prima in un grande magazzino e poi presso le Edizioni del Taglione. La dinamica del suo lavoro è molto semplice: arriva un cliente arrabbiato, il direttore lo ascolta fingendo grande empatia col problema descritto, quindi chiama il nostro protagonista e lo accusa, davanti al cliente stesso, di essere il responsabile del disastro. La faccia contrita di Benjamin, mentre viene investito dal vomito d’odio del suo titolare, suscita umana pietà nel cliente che invariabilmente prega il direttore di smetterla e ritira il reclamo. Questa è la vita del nostro eroe, prendersi le colpe del mondo. Non un gran vivere a pensarci, ma potrebbe andare peggio. E infatti va peggio, visto che in ogni libro i Malausséne si ritrovano invischiati in qualche omicidio (tutti gialli davvero ben strutturati e divertenti) e dovranno essere loro (con Benjamin in testa) ad aiutare Rabdomant e gli altri poliziotti a giungere alla verità. Ma il mondo di Belleville non sarebbe tanto fantastico se non ci fossero comprimari all’altezza del protagonista. Pagina dopo pagina scopriamo la stupenda famiglia di Benjamin, a partire da Mamma, di cui Benjamin è il primogenito; una donna che ha avuto sette figli da altrettanti compagni, e che a un certo punto della storia scappa, salvo poi tornare e scappare nuovamente.

Fare l’elenco completo dei personaggi è veramente lungo, noioso e Carlo si dimenticherebbe sicuramente di qualcuno, quindi niente elenchi, solo un flusso di ricordi ed emozioni, chi verrà nominato bene, gli altri vi aspettano tra le pagine dei quattro romanzi. C’è Clara, la sorella tanto amata da Benjamin, quella che lui stesso ha fatto nascere, l’unica donna che avrebbe amato se non ci fosse di mezzo il vincolo della parentela. Jèrèmy, fratello piromane (come fai a non amare un bambino che brucia la scuola e ha quel nome che a Carlo ricorda tante altre cose?), c’è Piccolo, il preferito di Carlo, sarà forse per via degli incubi o dei suoi occhiali rosa (“Il bambino era inchiodato alla porta, come un uccello del malaugurio. I suoi occhi plenilunio erano quelli di una civetta”). C’è Julius il cane epilettico, Stojil che vuole tradurre Virgilio in serbo, la Regina Zabo (anoressica titolare delle Edizioni del Taglione), il Signor Malausséne voce narrante dell’ultimo capitolo, e mille altri veramente, fino ad arrivare a suor Gervaise, ex prostituta ora dedita alla protezione delle stesse e che nel finale dell’ultimo libro regalerà una sorpresa inaspettata (ma qui Carlo si autocensura e non spoilera niente).

 

“Nonno perché questo sì e quell’altro no?” (riferito a due pesci pescati, uno ributtato in acqua e l’altro messo nel cestino per essere cucinato a casa).

“Questa è la domanda che Dio non si pone mai.”

Ecco, non ponetevela nemmeno voi la domanda: decidete di leggerli tutti questi libri, abbandonatevi a questo mondo e alle sue regole, senza tentare di trovarci un senso. Il senso lo troverete alla fine del viaggio, come sempre accade, quando comprenderete che è assolutamente normale avere come nome di battesimo Signor Malausséne, con due maiuscole, perché anche le maiuscole, se fai attenzione, si sentono quando pronunci il nome.

 

“Ed è così che lo chiamiamo.” Dichiara Jèrèmy.

“Malausséne?” domanda Thèrése.

“Signor Malausséne” dice Jèrèmy.

“Signor Malausséne?” insiste Thèrése.

“Sì, con due maiuscole, Signor Malausséne.”

 

Grazie Daniel, Carlo ti vuole bene.

giovedì 27 ottobre 2022

Carlo il bonsai si racconta: intervista per "Il Re ha parlato" di Francesco Calzoni a Radio moon Deruta.

Raccontarsi, raccontare. Lorella Marini e Lucia Pippi intervistano l'autore de "Il Re ha parlato" a Radio Moon Deruta. Una bella e proficua chiacchierata che, senza rivelare troppo, tocca alcuni dei principali nodi del libro: dalla figura di Lorenzo, il protagonista, a quella della seconda voce, Dedi, al tema del bullismo nelle scuole, alla storia che lega questi due ragazzi. Sicuramente una bella esperienza, guidata dalle voci (e dai volti) di due donne dalla grande sensibilità ed esperienza. 

Per saperne di più basta cliccare al link sottostante! Buona visione!

https://m.youtube.com/watch?v=kVsQXcAJN1w&feature=youtu.be

Carlo il bonsai legge cose: "Eureka Street" di Robert McLiam Wilson



A Carlo il bonsai piace l’Irlanda, credo sia ormai pacifico per tutti. E in questo libro, di Irlanda, ce n’è tantissima, e non solo perché lì è ambientato. La magia di quell’isola si respira in ogni pagina, nei dialoghi brillanti e ironici, nella crudezza con cui sono descritte le situazioni più drammatiche, nella dirompente leggerezza con cui la vita si riprende i propri spazi, nonostante tutto. Ma, soprattutto, nella capacità di restare vicini, anche vivendo dentro una “guerra” lunga decenni, pur essendo cresciuti con l’imperativo di diffidare dal “diverso.” 

Tutte le storie sono storie d’amore. Così comincia il romanzo di McLiam, e pure l’incipit è tremendamente irlandese, se si conosce quel popolo. Ma dimenticatevi il romanticismo, anche se poi alla fine c’è un po’ anche di quello – in un finale che Carlo non ha digerito del tutto, ma forse perché lo aveva “sgamato” fin dall’inizio -, non è l’amore finalizzato a conquistare una donna. È qualcosa di più ampio, è quello che l’amore alla fine è. Jake e Chuckie sono amici fin dalla nascita, uno cattolico (Jake) e l’altro protestante (Chuckie), e già questa è una pessima base di partenza se vivi a Belfast, anno del signore 1994.  Però già questo è amore, se un’amicizia resiste nonostante la differente appartenenza religiosa, in quegli anni, in quel posto. Jake è il classico bullo dal cuore d’oro, che ovviamente cerca di tenere ben nascosto, perché non si sa mai – in quegli anni, in quel posto -, ma indovinate cosa cerca? Amore, appunto. Questa volta sì, romantico. Chuckie è Pippo, l’amico di Topolino, solo più grasso. Stralunato, strampalato, pieno di idee assurde con le quali è convinto di poter diventare un mago della finanza. Chiaramente una causa persa, ma non sottovalutate mai un irlandese con un sogno. Attorno a loro girano gli amici e tutta Belfast, ed è un affresco perfetto dell’Irlanda: i vicoli nascosti, le birrerie, le ciance allegre capaci di spazzare via la pioggia insistente. Ma anche i discorsi profondi, di quelli che ti inchiodano a una realtà che non puoi evitare, che ti fanno pensare che se te certe domande le puoi ignorare… beh sei molto fortunato a essere nato nel posto dove sei nato, e non a Belfast, in quegli anni.

Il fine giustifica i mezzi? È la domanda attorno a cui gira una discussione tra Jake e Sarah (protestante come Chukie), una delle discussioni che danno il senso a tutto il libro. Una litigata - all’apparenza come tante – che pare solo un ringhiarsi addosso dei dogmi incestati nel DNA, il cui senso si è perso nella notte dei tempi. O per meglio dire: è come si evolve il tutto che dà il senso alla frase d’apertura del libro, che poi – oramai lo avrete capto – significa dare il senso a tutto il racconto.

Ma in mezzo a questo mondo comunque allegro, anche quando il grigio del cielo abbraccia tutto e tutti, arriva la chiave di volta di tutta la storia. Una bomba come tante - purtroppo - in quegli anni esplode, sventrando un pub. La descrizione è incredibilmente vivida, fa arrivare al naso e in gola la polvere che oscura il sole, l’odore acre che è un misto di sangue, follia ed esplosivo. Impossibile non sentirsi turbati. Siamo là che piangiamo assieme ai superstiti, guardandoci negli occhi e chiedendoci perché. Ecco, la forza di Jake e dei suoi amici, che altro non sono se una rappresentazione degli irlandesi tutti, questa domanda se la pongono fino a un certo punto. C’è una vita da prendersi, perché quello è il solo antidoto a tutto quell’orrore. E così la vita torna a fare capolino, situazione assurda dopo situazione assurda, chiacchiera surreale dopo chiacchiera surreale. Con l’ironia amara e feroce che impregna ogni pagina che sfoglierete e che adorerete, perché è – assieme all’amore -veramente il solo antidoto che esiste per le brutture del mondo. Viviamo in un universo sconfinato, dove c’è spazio per ogni tipo di finali e per un numero infinito di incipit…Belfast non è altro che un intrico di strade e collinette, un sussurro di Dio. Non è meraviglioso, e immenso, questo nostro mondo?

Ecco cosa leggerete nell’ultima pagina, la chiosa perfetta per l’incipit perfetto: non possiamo pensare di poter controllare tutto, né di renderci immuni o evitare fatalità o tragedie. Ma come reagire dipende solo da noi. Carlo il bonsai vuole molto bene a chi, facendoci molto più ridere che piangere e senza mai essere pesante, riesce a raccontarci questa verità.


mercoledì 26 ottobre 2022

Carlo legge cose: "Norwegian Wood" di Murakami Haruki


Forte delle sue origini, Carlo si immerge ogni tanto nella lettura di autori provenienti dal paese del Sol lavante. Di Murakami si è detto tutto e il contrario di tutto in molte sedi, più volte candidato al Nobel per la letteratura senza mai uscire vincitore, fenomeno, bluff, ghost. Personaggio schivo e riservato, amante della musica jazz, collezionista di vinili gelosamente custoditi nel suo studio a Tokyo, è stato proprietario di un locale in cui si suonava blues e jazz (questa esperienza è narrata nel suo libro "A sud del confine, a ovest del sole"), maratoneta ("L'arte di correre") Murakami è uno scrittore prolifico, i suoi libri sono distribuiti in tutto il mondo e si può dire senza ombra di dubbio che grazie a lui si è acceso, da parte dell'occidente, un forte interesse verso la narrativa contemporanea giapponese. Non è facile parlare soltanto di una delle sue opere e la sua produzione è così vasta e complessa da non poter certamente essere racchiusa in un articolo. Carlo si è fatto immortalare con "Norwegian Wood, Tokyo blues", forse il primo libro che ha fatto conoscere al mondo il genio di Murakami, il cui titolo è ispirato dall'omonima canzone dei Beatles che fa da sottofondo al primo flashback del protagonista nelle prime pagine. Sullo sfondo di un paese cupo, quasi ostile, teatro delle prime rivoluzioni studentesche degli anni '60 si dipanano le reminiscenze di Toru Watanabe, studente all'università di Tokyo, che ricorda la fragile Naoko e la solare Midori, due facce della stessa medaglia, entrambe legate a Toru da un rapporto complicato, viene ricordato Kizuki, amico, idolo di Toru e fidanzato di Naoko, che inspiegabilmente si toglie la vita a diciannove anni lasciando attoniti gli amici che non riusciranno mai a guarire dalla ferita profonda della sua scomparsa, soprattutto Naoko che soccomberà al dolore. Il tema del suicidio, della fine brusca della vita, permea questo libro dandogli un tono malinconico e quasi rassegnato, essendo in Giappone, soprattutto in quegli anni, molto diffusa tale pratica, soprattutto tra i giovani. Tuttavia Toru sopravvive, riesce a laurearsi e a pagarsi gli studi lavorando, sceglie di vivere, sceglie di non farsi soffocare da tutto ciò che gli succede intorno, porta il fardello dei propri ricordi sulle spalle come un carico da depurare e lo fa giorno dopo giorno seguendo una linearità di percorso senza troppi scossoni, riflettendo sul senso della vita, affidando ai ricordi il senso della perdita e guardando avanti senza mai, però, dimenticare. Il fascino di questo libro probabilmente è racchiuso proprio nella volontà di Toru di non arrendersi, di nuotare come una carpa contro corrente, di resistere. Non compie gesti eclatanti, non è un eroe dagli alti proclami, è un uomo, un uomo figlio di una cultura controversa quanto affascinante, che un occidentale probabilmente non riuscirà mai a comprendere fino in fondo. Toru apre con discrezione una porta di carta di riso e ci permette di vedere, di entrare nel suo mondo di chiaroscuri, di ombre e di luci soffuse, di fari nella notte, di birra e solitudine raccontandoci il suo attaccamento alla vita e il senso profondo di una scelta.

Murakami Haruki, "Norwegian Wood, Tokyo Blues", 1987.

Carlo racconta cose: Intervista di Studio83 a Francesco Calzoni per "Il Re ha parlato".

Un racconto piccolo ma intenso, con due voci adolescenti, forti e fragili in modi diversi. Ci abbiamo lavorato insieme: Francesco si è rivolto a Giulia Abbate per una valutazione, che ha poi fatto seguire da un editing alla seconda stesura del testo. Abbiamo cercato le parole, i timbri, le emozioni di un ragazzo e una ragazza che, marginalizzati da un mondo incapace e ottuso, reagiscono in maniera diversa all’esclusione e si trovano vicini. Almeno per un po’.

Ecco cosa ci racconta l’autore:

Questo romanzo breve è veramente nato quasi per caso, raccogliendo l’invito a partecipare a un concorso – partecipazione mai avvenuta, per la cronaca – il cui tema era quanto di più generico e “pericoloso” (il rischio di scrivere banalità era altissimo) ci potesse essere: “il sociale.” Il caso volle che, in quei giorni, mi fossi messo a leggere nuovamente i testi di alcuni album che, per i ragazzi della mia generazione, furono quanto mai formativi. E che, contestualmente, ne parlassi proprio con mio figlio, allora appena dodicenne (che poi è stato fondamentale per rendere la storia attuale, contemporanea e non figlia degli anni novanta); una maniera come un’altra per sviscerare temi complessi, evitando che i discorsi si trasformassero in sermoni o monologhi. La storia è nata direttamente dalla mia pancia, pur dentro ai rigorosi paletti imposti dalla scaletta che avevo buttato giù, e per qualche mese è rimasta lì, abbandonata a se stessa.  Come anticipato, alla fine non partecipai al concorso, perché per una volta, non riuscii a raggiungere il limite minimo di battute. O meglio, decisi di non raggiungerlo, perché mi sembrava di snaturare l’essenza stessa della storia, che doveva essere un cazzotto nello stomaco, e non perdersi dietro a elucubrazioni interminabili, tenuto conto che i protagonisti sono due adolescenti di 16 anni. È rimasta lì, dicevo, fino a che, non ho deciso di vedere se di tutto il materiale che avevo scritto fino a quel punto, ci fosse qualcosa che valesse la pena di migliorare e così ho contattato lo Studio83, e nello specifico Giulia la quale, oltre ad aver apprezzato “Il Re ha parlato”, ne ha subito evidenziato i limiti, che poi erano quelli che io stesso gli imputavo: il racconto andava asciugato, e poco importa se poi sarebbe diventato una sorta di “ibrido”: troppo breve per una pubblicazione singola, troppo “solo” per una pubblicazione in una raccolta di racconti (gli altri miei componimenti brevi erano, in quel momento, troppo acerbi e necessitavano di un lavoro molto più lungo). Comunque, essendo la pubblicazione in quel periodo non proprio nei miei pensieri, e dato che ero motivato unicamente dal migliorarmi quanto più possibile, non stetti a pensare neanche per un istante al discorso della ipotetica commercializzazione dell’opera. Insomma, è stato un lavoro sinceramente divertente ed esaltante, è sempre piacevole vedere che si impara ogni volta qualche cosa, e che alla fine gli sforzi vengono ripagati. Poi, ciliegina sulla torta, è arrivata anche la pubblicazione. Anzi, in verità le ciliegine sono due, dato che è in uscita anche un secondo libro (anch’esso nato col prezioso aiuto di Giulia).

Ma di cosa parla, esattamente, “Il re ha parlato”? 

Parla del passaggio che ognuno di noi ha affrontato attorno ai sedici anni, con tutte le paure, le esaltazioni, il disperato bisogno di accettarsi e di venire accettati. Parla di diversità, di bullismo, di quel mondo totalizzante che è la scuola (intesa non solo come struttura, ma come vero e proprio microcosmo, dove nascono e si consumano i primi amori, i primi drammi, i primi trionfi personali). Mi hanno chiesto spesso quale sia la morale, dato che è un libro estremamente crudo, grunge (e non poteva essere diversamente): onestamente non lo so. Non mi interessa darne una. Perché fornire morali significa dare risposte. Io non ne ho, scrivo anzi per allargare la domanda, per obbligare la gente a porsela. Ecco: se, una volta letto il libro, la gente cominciasse a riflettere molto intensamente, allora sarei contento, avrei la conferma di aver fatto un buon lavoro.

Grazie a Francesco Calzoni per queste parole, e auguri di buone scritture!

Di Giulia Abbate.



martedì 25 ottobre 2022

Carlo il bonsai scrive cose: "Il Re ha parlato" di Francesco Calzoni.

 


Carlo il Bonsai è uno che scrive, che racconta storie. E questa è una di quelle storie che è difficile da dimenticare, perché fa pensare, perché entra dritta dentro come un pugno nello stomaco, risvegliando ricordi, sentori, nostalgie che tutti abbiamo vissuto, ognuno a modo suo. Nella cornice di una scuola superiore avviene l'incontro tra due anime uniche, diverse eppure simili tra loro, due anime che stanno in bilico sul bordo, affacciate al limitare di quel pezzo della vita che non può non lasciare qualche cicatrice, che sia un graffio o un solco profondo, il tempo delle canzoni e dei primi amori, dei dubbi e del furore, della creatività e dell'orgoglio. C'è Lorenzo, un ragazzo. Punto. Un ragazzo particolare, che ha qualcosa di "diverso" rispetto agli altri e che con tale termine viene etichettato. Soffre in silenzio, di una sofferenza a volte cieca, confusa, come quella di chi non riesce a scorgere la luce in fondo al tunnel e ci rimane incastrato dentro, annaspando come in un oscuro labirinto. La luce però arriva, si chiama Dedi, ventata di energia, una combattente, fiera delle proprie origini, bella, grintosa. Lei apre le porte, spezza le rocce che sovrastano Lorenzo, travolgendolo come un fiume in piena, regalandogli la vita che prima di allora non aveva mai vissuto. E che succede quando la storia di due anime tormentate, adolescenti, nel fulgore dei sedici anni, con le teste piene di sogni e contraddizioni, prende forma? Questo è il racconto che non va svelato, ma che va scoperto pagina dopo pagina, con un ritmo incalzante, veloce, come una canzone. Appunto. Questo libro è stato definito come una playlist, e lo è a tutti gli effetti. Ogni capitolo è un brano, ogni brano una storia, ogni storia una pagina e pagina dopo  pagina il libro. Dall'inizio alla fine. Proprio come Lorenzo e Dedi, due voci di un'unica storia, da leggere tutta d'un fiato. 

Recensione di Enrica Zeppoloni

"Il Re ha parlato" 2022, Robin edizioni.

https://www.amazon.it/re-ha-parlato-Francesco-Calzoni/dp/B09WHSHGJB/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&crid=1LRG7PD477H9E&keywords=il+re+ha+parlato&qid=1666728038&qu=eyJxc2MiOiIwLjAwIiwicXNhIjoiMC4wMCIsInFzcCI6IjAuMDAifQ%3D%3D&sprefix=il+re+ha+parlato%2Caps%2C88&sr=8-1

Carlo il Bonsai legge cose (e intervista persone): "Il gioco e la candela" di Michele Giordani

 


“Il gioco e la candela”, opera prima di Michele Giordani, scrittore e professore perugino classe 1976, è un viaggio fantastico nelle speranze e nei sogni di un giovane ricercatore, ma - per parallelismo – lo è anche per chi ha avuto nella vita un obiettivo su cui ha riversato tutto ciò che aveva dentro.
Fin troppo facile rivedere nel protagonista Tommaso lo stesso autore, ma non c’è traccia di nostalgia nelle pagine, solo una feroce ironia, unica cura allo sconforto.
Il finale, da teatro pirandelliano, è solo l’ultimo dei continui ribaltamenti di visuale che si alternano per tutto il racconto. Che poi non è quello che accade, a ognuno di noi - ogni santo giorno - nella vita?
Ma lasciamo che sia l’autore a raccontarci qualche cosa del libro e, gioco forza, di lui.

D. Prima domanda, che poi sono due, scontata quanto vuoi ma per cominciare facciamo conoscere il
romanzo: di cosa parla? Chi è Tommaso?

R. Dunque, Tommaso è un giovane ricercatore che si trova coinvolto in un mistero misterioso, alla Dan Brown, tanto per capirsi. Solo che al contrario dei personaggi di Dan Brown non è particolarmente sveglio, e spesso prende le decisioni sbagliate… Che è un cosa che nei libri di avventura, o mystery, mi ha sempre fatto riflettere: com’è che l’eroe azzecca la mossa giusta ogni volta? Perché nella vita vera prendiamo un sacco cantonate, di decisioni sbagliate, che poi ci tocca rinterzare e sperare di non fare peggio. Ecco, Tommaso è una versione para-autobiografica di me che sbaglia clamorosamente strada (anche se il mio percorso è stato assai meno bizzarro del suo, e di certo non sono stato un campione di nuoto di fondo).

D. Fin dall’inizio, anzi soprattutto nella parte iniziale, in cui le vicende si svolgono in Italia, si respirano
veramente gli odori, le sensazioni dell’università italiana. Anche visivamente il lettore è catapultato dentro quel mondo. Un dejà vu molto forte.

R. Beh, come detto prima, il romanzo è una (non tanto) lunga elaborazione di una mia sconfitta personale, frutto di una parte importante della mia vita passata in quegli ambienti (e in ambienti analoghi in altre città, in Italia e nel Regno Unito): scrivere quelle pagine è stato un po’ che descrivere la propria cameretta di quando si era ragazzi.

D. Uno dei personaggi centrali del romanzo è Jody. La ragazza è l’archetipo di un determinato tipo di
donna, ma forse non solo. È un ideale, non solo estetico, che si è fatto carne.

R. Allora, dato che sono uno scrittore mediocre, tutti i miei personaggi agiscono secondo le mie necessità drammaturgiche e sono basati su persone reali. Curiosamente, Jody è l’unico che si porta pure dietro il nome della ragazza che lo ha ispirato, anche se, come dici tu, alla fine è più un ideale che una vera ragazza, dato che con la vera Jody avrò scambiato forse 40 parole (più di 25 anni fa, in Erasmus)…

D. Perché la scelta di un’ironia tanto amara per raccontare certi temi?

R. Certe storture (che non sono necessariamente nostrane, ma semplicemente umane) meritano di essere
derise. Ma ovviamente non son tanto stupido da pensare di essere in una posizione di superiorità morale, diversa da quella di chiunque altro. L’ironia diventa amara perché non può e non deve perdonare noi stessi.

D. Raccontare significa anche esorcizzare quello che ci fa stare male, non dico curare. Fa ancora male non aver potuto portare avanti un determinato percorso? Ma quanto è servito mettere in fila pensieri ed
emozioni, fissandole sulla carta?

R. Ottima domanda. Scrivere di sicuro serve a mettere a fuoco , noi stessi e il mondo – o almeno il pezzo di mondo – che proviamo a raccontare. E anche se non si esce “curati” o risolti, almeno pacificati, sì. E forse la cosa più bella è che pure la sofferenza e la delusione possano portare frutto, in questo caso nella forma di un mucchio di pagine scritte e rilegate.

D. Il finale, nelle intenzioni di quando lo hai scritto, era un happy ending? E se lo rileggi ora, è un finale
felice?

R. Dunque, nella prima stesura – più sintetica – l’happy ending era più che altro un gancio per un ipotetico seguito ancora più bizzarro, quindi reale ma “fantastico”. Poi, quando ho aggiunto il penultimo capitolo, il finale ha preso una sfumatura un po’ più onirica, che credo abbia un suo senso nella storia: è un happy ending (almeno per qualche personaggio), ma è felice soprattutto perché è “giusto” per la storia.